Svezia e Iran: braccio di ferro per la vita di Johan Floderus
Il 10 dicembre 2023 sarebbe dovuto essere, per i più, un giorno da festeggiare. Come da prassi, infatti, si è celebrata la 75esima Giornata Internazionale dei Diritti Umani, che ricorda l’anniversario della ratifica della Universal Declaration of Human Rights, avvenuta proprio il 10 dicembre 1948. A commento di una tanto importante giornata, il Segretario dell’Onu António Guterres ha pubblicato un accorato messaggio dove ha rimarcato la centralità dei Diritti Umani e della Dichiarazione Universale nel mostrare “una via verso valori e approcci comuni che possono aiutare a risolvere tensioni e a creare la sicurezza e la stabilità che il mondo tanto desidera.”
È apparsa dunque come una coincidenza beffarda e piuttosto amara in Svezia l’arrivo della notizia, datata 10 dicembre 2023, secondo la quale a Tehran, capitale della Repubblica Islamica dell’Iran, è iniziato il processo contro un cittadino svedese accusato di essere una spia per conto di Israele e di “diffondere la corruzione sulla Terra.” Processo che, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe risultare in una condanna a morte. Il nome di questo cittadino svedese è Johan Floderus e noi cercheremo di spiegare chi è e quale sia il complesso sfondo diplomatico e storico in cui questa vicenda si è svolta e continua a svolgersi tutt’ora.
Johan nasce in Svezia nel 1990 e si forma accademicamente tra l’Università di Oxford, la SOAS di Londra e l’Università di Uppsala. Trasferitosi a Bruxelles già durante gli studi, nel 2017 lavora per conto del Direttorato Generale per le Partnership Internazionali, un’agenzia della Commissione Europea dedicata alla messa in pratica di programmi di sviluppo in regioni e paesi esterni all’Unione Europea. Nel 2021 lavora da Bruxelles con la delegazione UE per l’Afghanistan. Nel 2022 intraprende un viaggio diretto in Iran per incontrare alcuni amici. Ed è proprio in occasione di questo viaggio che, il 17 aprile, mentre si accingeva a lasciare il paese, Johan viene arrestato a Tehran.
Nonostante l’arresto fosse avvenuto ad aprile, le autorità iraniane non hanno confermato subito l’accaduto, anzi. Come riporta Al Jazeera in un articolo datato al 6 maggio 2022, né il Ministero della Giustizia iraniano né la delegazione iraniana alle Nazioni Unite hanno risposto immediatamente alle domande riguardo al fermo di Johan. Anche quando le accuse a motivo dell’arresto vengono rese note dal Ministero dell’Intelligence iraniano, non viene divulgata né la sua identità né dove si trovasse in quel momento. Le autorità si limitano a rivelare che un cittadino svedese è stato arrestato con l’accusa di spionaggio dopo essere stato sorvegliato dai servizi segreti iraniani. A detta loro, il sospettato - Johan, come si è appurato in seguito - avrebbe condotto tutta una serie di “viaggi al di fuori delle destinazioni e pratiche turistiche,” accusandolo di essere in contatto con una serie di individui europei e non sospettati dal regime iraniano. L’obiettivo di questi contatti, e causa ufficiale del fermo, sarebbe stato quello di raccogliere informazioni sull’arresto di un’altra “spia europea” non meglio identificata, fermata poco prima dell’arrivo di Johan in Iran. Dal momento del suo arresto, Johan è diventato così il terzo cittadino svedese detenuto in Iran, insieme ad Ahmad Reza Jalali e Habib Farajollah Chaab, entrambi con doppia cittadinanza svedese-iraniana ed entrambi condannati a morte: Jalali nel 2017, sebbene la pena non sia stata ancora somministrata, e Chaab - che avrebbe guidato un gruppo di separatisti arabi - giustiziato nel maggio 2023.
Dopo più di 600 giorni nel famigerato carcere di Evin di cui 300 in isolamento, come riporta SVT Nyheter, Johan viene formalmente accusato il 9 dicembre 2023 di “estese azioni contro la sicurezza nazionale, estese azioni di spionaggio per conto del regime sionista [ndr. lo stato di Israele] e diffusione della corruzione sulla Terra.” L’accusa è gravissima e punibile con la pena di morte. All’Incaricato d’Affari (Chargé d’Affaires) svedese, presente alla lettura dei capi d’imputazione, viene negata la partecipazione al processo, scatenando la reazione indignata del Ministro degli Esteri svedese, Tobias Billström, il quale afferma che la Svezia ha richiesto la presenza del suo massimo funzionario diplomatico in Iran non appena il processo riprenderà. In un messaggio trasmesso all’agenzia TT e riportato da Aftonbladet, l’Utrikesdepartementet (il Ministero degli Affari Esteri svedese) ha affermato che “Johan Floderus è arbitrariamente detenuto e pertanto tutte le accuse e i capi d’imputazione sono falsi. Questo è stato fatto presente all’Iran su diversi livelli e in diversi momenti durante la giornata di oggi.”
Il 28 gennaio 2024, riporta SVT Nyheter, durante l’ultimo giorno di udienza, il Pubblico ministero iraniano ha richiesto per il giovane svedese, sulla base dei capi d’imputazione, la pena capitale.
La vicenda di Johan Floderus è complessa e di difficile lettura. La sua detenzione, apparentemente arbitraria, ha bisogno di essere contestualizzata per comprenderne appieno la significatività, non solo dal punto di vista umano, ma anche politico. Sin dal momento in cui la notizia dell’arresto di Johan è stata divulgata, il nome del 33enne svedese viene legato a quello di un personaggio estremamente controverso, Hamid Noury, detenuto in Svezia dal 2019, che sembrerebbe essere al centro di quello che l’Aftonbladet chiama ett politiskt spel från Iran, un intrigo politico - più simile a un vero e proprio braccio di ferro - per assicurarne il rilascio. Ma chi è Hamid Noury? Perché è una figura così importante per l’Iran? Procediamo con ordine.
È il luglio del 1988. Dopo otto anni senza esclusione di colpi, la Risoluzione 598 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - votata durante l’estate 1987 - viene infine accettata dall’ancora giovane Repubblica Islamica dell’Iran, guidata da un Ruhollah Khomeini in precarie condizioni di salute, mettendo così la parola fine alla guerra con l’Iraq di Saddam Hussein. Scatenata per il controllo dello Shatt al-Arab (“La Sponda degli Arabi”), il fiume lungo circa 150km generato dalla confluenza del Tigri e dell’Eufrate prima di immettersi nel Golfo Persico e strategica via d’acqua navigabile dalle petroliere irachene e iraniane, la guerra del 1980-88 viene ricordata anche per il contributo dato da milizie curde in favore dell’Iran, desiderose di maggior controllo sul Kurdistan iracheno, e di alcuni gruppi armati iraniani al servizio di Saddam desiderose di rovesciare il regime rivoluzionario di Khomeini. Proprio tra questi ultimi, vi è un gruppo militante iraniano che è particolarmente rilevante per la nostra storia: i sazman-e Mojahedin-e Khalq-e Iran, traducibile dal farsi come “Organizzazione popolare dei combattenti dell’Iran” (MEK).
I MEK nascono alla fine degli anni ‘60 come forza di opposizione alla monarchia dello shah Mohammed Reza Pahlavi caratterizzata da un insolito sincretismo ideologico che univa ai precetti dell’Islam sciita i dettami del Marxismo. Dopo aver partecipato alla stagione rivoluzionaria culminata nell’instaurazione della Repubblica Islamica tra il 1978 e il 1979, i MEK si costituiscono come forza di opposizione al regime di Khomeini entrando nel novero di soggetti colpiti dalle numerose epurazioni che caratterizzano la società iraniana ad ogni livello negli anni successivi alla rivoluzione. Conseguentemente, i MEK sono costretti all’esilio - a Parigi prima, fino al 1986, e nell’Iraq in guerra con il vicino Iran dopo, dove poi si uniranno al conflitto dalla parte di Saddam.
L’accettazione della sopracitata Risoluzione 598 da parte dell’Iran, duramente messa alla prova da parte delle forze irachene nell’ultimo anno di guerra, viene percepito come un momento di profonda debolezza del regime di Khomeini e i MEK intravedono un’occasione unica e irripetibile per colpire a fondo la Repubblica Islamica nel tentativo di rovesciarla. Il 25 luglio 1988 Masoud Rajavi, leader dei Mojahedin, lancia l’operazione “Luce Eterna”, una vera e propria invasione dal confine con l’Iraq. L’attacco però viene velocemente contenuto e migliaia di mojahedin perdono la vita sia nei combattimenti che durante le esecuzioni sommarie dei prigionieri portate avanti dall’esercito iraniano. Nonostante la sconfitta militare dei MEK però, l’operazione “Luce Eterna” riesce ad acuire un senso di crisi strisciante all’interno della società iraniana post-rivoluzionaria. Per tutta risposta, centinaia di mojahedin vengono rinchiusi nelle carceri di Evin e Gohardasht, unendosi alle migliaia di prigionieri politici, curdi e comunisti presenti lì da più tempo. Il regime decide di reagire con quella che lo storico Michael Axeworthy chiama nel suo libro Revolutionary Iran “una reazione spropositata oltre ogni misura”: l’eliminazione fisica dei prigionieri. Ed è in questo contesto che Hamid Noury, pedina fondamentale della partita per la liberazione di Johan Floderus, fa la sua comparsa.
Noury è un sostituto vice-procuratore nel carcere del Gohardasht, situato a circa 20 km a ovest di Tehran nella città di Karaj. Durante le esecuzioni del 1988, lavora nelle cosiddette commissioni per l’amnistia il cui compito è quello di interrogare i prigionieri e, in base alle loro risposte, deciderne la condanna capitale o eventualmente la grazia. I prigionieri dopo poco le rinomineranno “commissioni della morte.” Tra i membri di queste commissioni vi è anche Ebrahim Raisi, l’attuale presidente della Repubblica dell’Iran, all’epoca vice-procuratore di Tehran. Sotto la supervisione di Raisi, Nouri e un folto numero tra procuratori e carcerieri, i prigionieri interrogati - quasi sempre in regime di tortura - e mandati a morire sono centinaia, la maggior parte membri dei MEK. Tra il 27 luglio e il 15 agosto 1988 si stima siano state giustiziate sommariamente circa 4-5000 persone tra Evin e Gohardasht. Ciò che sorprende più di tutto però è come il regime rivoluzionario di Tehran sia riuscito ad insabbiare l’intera vicenda, la quale è rimasta pressoché sconosciuta ai più fino agli anni 2000 quando ha cominciato ad attirare l’attenzione di accademici e associazioni per la tutela dei diritti umani. In conseguenza di questo colossale insabbiamento, la stragrande maggioranza dei responsabili dei massacri del 1988 resta ancora impunita. Ma non Hamid Noury.
Arriviamo ai giorni nostri. Ottobre 2019. Grazie a una soffiata da una fonte anonima, Iraj Mesdaghi, autore iraniano residente in Stoccolma ed ex prigioniero politico sopravvissuto al 1988, viene a conoscenza di preziose informazioni circa un viaggio in Svezia che Hamid Noury starebbe per intraprendere. Stando alla fonte, Noury dovrebbe visitare il paese scandinavo per ragioni familiari. Immediatamente, Mesdaghi chiama Kaveh Moussavi, avvocato anglo-iraniano e tra i massimi esperti di diritti umani e dei massacri di Evin-Gohardasht. Insieme, riescono ad avvisare le autorità svedesi dell’arrivo di Noury e raccolgono abbastanza informazioni e testimonianze per citarlo in giudizio per crimini contro l’umanità. Non appena l’aereo che lo trasporta tocca terra in Svezia, all’areoporto di Arlanda, Hamid Noury viene arrestato. Due anni dopo, il 27 giugno 2021, sulla base della giurisdizione universale (che permette ad ogni corte nazionale di processare soggetti macchiatisi di pesanti violazioni dei diritti umani), ha inizio il processo contro Noury, che sfocerà in una condanna all’ergastolo, poi confermata ulteriormente dalla Corte d’Appello Svea il 19 dicembre 2023.
Come suggerisce questo articolo di Al Jazeera del 2021, ma le cui conclusioni sono facilmente estendibili ai giorni nostri, il processo - e la condanna - di Noury sono un ricettacolo di attenzioni non gradite da parte dell’Iran, a maggior ragione dopo la grande ondata di proteste che ha attraversato il paese a seguito del movimento Donna, Vita, Libertà e che ha fortemente minato la legittimità del regime di Tehran nei confronti dei suoi stessi cittadini. In questo senso, il politiskt spel iraniano nominato dall’Aftonbladet prevede di sfruttare Johan Floderus, la sua libertà, e la sua vita (così come quella di Ahmad Reza Jalali), al fine di esercitare una fortissima pressione diplomatica contro la Svezia finalizzata al rilascio di Noury. L’Iran ha solo da guadagnarci da questa strategia: se la Svezia rilasciasse Noury, il regime di Tehran potrebbe soffocare attenzioni scomode e potenzialmente destabilizzanti che rimandano a una pagina oscura della propria storia recente; se invece la Svezia si rifiutasse di scarcerare Noury e in risposta Johan fosse condannato a morte, l’Iran potrebbe usare lo spauracchio della minaccia straniera, in questo caso rappresentata da Johan, per cementare il suo supporto popolare come sembra stia già facendo in vista delle elezioni politiche del primo marzo.
Dal canto suo, la Svezia si ritrova il coltello puntato dalla parte della lama. Bloccata in un dilemma quanto mai spinoso, Stoccolma sembra costretta a dover scegliere tra i due doveri morali che più di ogni altro hanno modellato la società svedese: la difesa dei diritti umani, che si rifà al ruolo che la Svezia si è ritagliata come superpotenza umanitaria e che dovrebbe portare il paese nordico a non cedere alle pressioni dell’Iran, e la difesa dell’incolumità dei propri cittadini, un dovere fondamentale di ogni stato civile, che invece dovrebbe spingere la Svezia a fare di tutto per liberare Johan.
In chiusura, vi lasciamo con questo interessante articolo di opinione scritto dal caporedattore politico dell’Aftonbladet, Anders Lindberg. Ragionando sul dilemma svedese sopra citato, Lindberg sostiene realisticamente che “[i]n un mondo giusto, Tobias Billström e il governo non dovrebbero compiere la scelta” tra il salvare Johan o assicurare che Hamid Noury sconti la sua pena, “ma adesso devono farlo.” Dunque, secondo Lindberg, nel valutare la strategia da seguire, il governo svedese dovrebbe vagliare il “peso” della causa di Johan come molto più grave e pressante rispetto ad ogni altra considerazione, rendendo la sua liberazione una priorità assoluta.
Vi lasciamo con alcuni consigli per la lettura e l’ascolto. Per comprendere il complesso background sociale, politico e storico in cui la vicenda di Johan Floderus si dipana, oltre al già citato Revolutionary Iran di Michael Axeworthy, è bene leggere questo articolo scritto da Kaveh Shahrooz per l’Harvard Human Rights Journal che spiega nel dettaglio le vicende dei massacri del 1988 inquadrandole nel contesto della legislazione internazionale a tutela dei diritti umani. Qui invece, potete ascoltare un breve servizio di Sveriges Radio che spiega come Iraj Mesdaghi è riuscito ad assicurare Hamid Noury alla giustizia. Per restare aggiornati sulle condizioni di Johan Floderus, scoprire di più su di lui e sostenere la sua causa, potete visitare il suo sito.