La parola del mese di novembre in Svezia è stata strejk, sciopero. Qualche attento osservatore forse la ricorderà perché presente sul cartello che per anni ha accompagnato Greta Thunberg e che ha fatto il giro del mondo. Il cartello recitava “Skolstrejk för klimatet” ovvero sciopero scolastico per il clima. Questa volta però la notizia riguarda la tradizionale idea di sciopero che tutti noi abbiamo: la contrapposizione tra lavoratori dipendenti di uno stabilimento industriale e il loro datore di lavoro. Un fatto più unico che raro in Svezia, un paese che è riuscito a pacificare per lungo tempo i conflitti industriali tramite un modello molto peculiare.
Lo sciopero di cui si discute da mesi in tutto il mondo è partito dallo scontro tra il sindacato svedese IF Metall - che rappresenta lavoratori del settore metalmeccanico, tessile, minerario, delle costruzioni e appunto meccanici del settore automotive - e la nota casa automobilistica statunitense Tesla, nella persona del proprio CEO Elon Musk. Attualmente l’uomo più ricco al mondo, Musk in questo confronto assurge ad archetipo della figura di imprenditore industriale con una spiccata avversione verso i sindacati.
La questione alla base del conflitto è il rifiuto della società sussidiaria di Tesla in Svezia (TM Sweden AB) di negoziare e firmare un contratto collettivo (kollektivavtal) con il sindacato IF Metall. La notizia di un possibile sciopero aveva iniziato a circolare già a inizio ottobre e si è concretizzata il 27 ottobre, data d'inizio ufficiale dello sciopero dei circa 130 meccanici e dipendenti Tesla. Ma l’escalation del conflitto è avvenuta a novembre quando l’azione industriale si è estesa a molti altri sindacati svedesi - in una spirale di scioperi di solidarietà (sympatiåtgärd) e boicottaggi - e che a dicembre ha coinvolto anche alcuni sindacati in Danimarca, Norvegia e Finlandia, uniti a difesa del modello nordico. Nel frattempo Tesla ha cercato di contrastare la protesta con una serie di mosse scomposte e inusuali per il panorama economico e soprattutto culturale svedese. Ha inasprito il conflitto invece di tentare di sgonfiarlo con dichiarazioni al vetriolo di Musk. Ha tentato di organizzare i lavoratori non aderenti allo sciopero per dislocarli negli stabilimenti che necessitavano di manodopera. Ha citato in giudizio l’Agenzia governativa dei Trasporti e le poste svedesi, dunque indirettamente lo Stato svedese. Ha infine cercato di ottenere un incontro con il Ministro del Lavoro Johan Pehrson, mostrando di ignorare le regole del peculiare mercato del lavoro svedese, dove la politica non deve e non vuole essere coinvolta nei conflitti industriali.
L’impatto che questo sciopero sta avendo sia a livello interno che a livello internazionale è straordinario; e sta dando l’occasione di discutere ancora una volta del ruolo fondamentale che la Svezia ha avuto nel Novecento - e ha ancora oggi - nella definizione di un modello nordico per le relazioni industriali. Un tratto culturale così forte che ha fatto sì che un conflitto industriale locale - che interessa direttamente solo un centinaio di lavoratori - potrebbe finire per avere un effetto sui dipendenti Tesla di tutto il mondo, a cui finora era stata negata la possibilità di organizzazione sindacale da parte di Musk.
Ma prima di passare alla cronaca dei fatti, ognuno dei quali apre una finestra su vari tratti culturali, cerchiamo di capire più a fondo l’oggetto del contendere. Cosa sono i contratti collettivi e perché sono così importanti in Svezia?
I contratti collettivi sono la base del modello nordico di mercato del lavoro che dagli anni ’30 del Novecento - grazie al cosiddetto “Grande Compromesso” - ha caratterizzato fortemente lo sviluppo economico e culturale del paese e dell’intera regione scandinava, aiutando a contraddistinguere ancora una volta un “modello svedese” e perciò a definire un eccezionalismo nordico. In un’era in cui la lotta di classe tra detentori del capitale e forza lavoro infuocò l’Europa e il mondo per decenni, dando poi forma ai singoli panorami politici nazionali del secondo dopoguerra, in Svezia questo conflitto fu volontariamente, tempestivamente e efficacemente disinnescato. La pietra miliare in questo percorso fu il celebre Accordo di Saltsjöbad del 1938 firmato tra la Confederazione dei Sindacati svedesi (LO) e l’allora Associazione dei Datori di Lavoro Svedesi (SAF) e ancora oggi formalmente in vigore. Tale è l’influenza di questo avvenimento che esiste un espressione in svedese Saltsjöbadsandan (letteralmente lo spirito di Saltsjöbaden) con cui ci si riferisce al clima di cooperazione e consenso che ha pervaso il mercato del lavoro in Svezia per circa un secolo.
Il sistema venuto fuori da questo celebre accordo è un sistema volontario in cui tutte le condizioni di lavoro sono fissate appunto tramite contrattazione collettiva. I contratti collettivi sono il risultato del compromesso tra i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro: sono accordi scritti tra le parti e vengono negoziati settore per settore. Devono essere conclusi senza nessun tipo di interferenza da parte del governo, sia di tipo legislativo o di mediazione esplicita. Questi tipi di contratti permettono di determinare in maniera stabile e condivisa tutte le condizioni di lavoro tra cui salari, orari dei turni, trattamenti pensionistici, ferie, scatti di anzianità, tempi di preavviso per il licenziamento ecc. Ciò assicura a entrambe le parti una stabilità delle “regole del gioco” sul lungo termine, riducendo l’incertezza sulle aspettative future: aspetto ritenuto cruciale dagli economisti per una crescita economica stabile e duratura. Inoltre, i contratti collettivi garantiscono ai lavoratori condizioni di lavoro eque e alle aziende la certezza che altri datori di lavoro non possano offrire ai propri dipendenti condizioni tali da distorcere la concorrenza nel proprio settore di riferimento. Una volta firmato il contratto collettivo, le parti sono vincolate ad astenersi da qualsiasi tipo di azioni industriali quali scioperi o serrate. Questi sono ovviamente permessi nella fase di negoziazione, prima della firma dei contratti, col fine di ottenere migliori condizioni, così come sono considerati diritti fondamentali difesi dalla Costituzione svedese.
Considerando quindi i dati del Medlingsinstitutet che ci dicono che l’88 % dei lavoratori dipendenti in Svezia aderisce ai contratti collettivi, è facile immaginare quanto pacifico sia il panorama industriale, permeato da quella che viene chiamata arbetsfred (letteralmente pace del lavoro). Questo aspetto va di pari passo a una crescita dei salari reali di circa il 60% negli ultimi 30 anni in tutte le fasce di reddito, in una delle nazioni con indici di disuguaglianza tra i più bassi al mondo, nonostante un peggioramento degli ultimi anni. Allo stesso tempo, German Bender - chief analyst del think-tank svedese Arena Idé, in un articolo sul The Guardian - sottolinea come la Svezia abbia una posizione di assoluto rilievo in altri indicatori economici tra cui l’indice di innovazione, di competitività e di libertà economica. In sintesi - sempre secondo Bender - questi dati mostrano come il modello svedese sia utile sia ai lavoratori che le aziende: e ciò non avviene tramite una dinamica di conflitto bensì da un conflitto evitato grazie al compromesso. In perfetto stile svedese.
Vediamo ora cosa è successo in questi mesi: come lo sciopero è iniziato e come si è espanso in tutta la Svezia e la Scandinavia. Non fermandosi solo lì ma arrivando ad avere ripercussioni ed echi anche in Germania e negli Stati Uniti. (Qui oppure qui potete trovare un riassunto cronologico completo).
La notizia di un possibile sciopero ha iniziato a circolare già il 5 ottobre, quando il Segretario per la contrattazione di IF Metall Veli-Pekka Säikkälä ha rilasciato un’intervista a Sveriges Radio minacciando l’azione industriale. Secondo il sindacato, il processo di negoziazione con Tesla iniziato nel 2017 era arrivato al capolinea e da circa un anno i negoziati si sarebbero ormai totalmente interrotti. Nel frattempo l’azienda è cresciuta. Non ha stabilimenti veri e propri sul territorio ma negli anni ha aperto centri di riparazione in varie città svedesi, accrescendo i suoi dipendenti. Secondo il sindacato, è arrivato il momento per Tesla di garantire ai suoi meccanici e ai suoi tecnici le stesse condizioni che valgono per tutte le altre aziende che operano nel settore automobilistico, grazie ai relativi contratti collettivi.
Il 17 ottobre IF Metall formalizza il suo avviso di sciopero, con data d’inizio il 27 ottobre. Lo stesso giorno il Medlingsinstitutet nomina Kurt Eriksson come negoziatore. Il Medlingsinstitutet è l’agenzia che fa capo al Ministero del Lavoro e che si occupa di facilitare la mediazione tra le parti coinvolte in un conflitto industriale. Non è un organo politico ma appunto un’agenzia governativa: rappresenta lo Stato ma non il governo, segnando la tipica distinzione svedese tra apparato amministrativo e politico e garantendo una sorta di neutralità della sua azione burocratica. Questo ente pubblico è l’unico in Svezia a cui è “permesso” avere un ruolo all’interno dei conflitti industriali, seppur esclusivamente di facilitazione della mediazione.
Su iniziativa del negoziatore le parti si incontrano il 24 ottobre, ma solo per constatare che non c’è possibilità di evitare lo sciopero, come riporta Lag&Avtal. L’azienda pare abbia fatto presente al sindacato come sia vincolata alle direttive della casa madre negli USA; nonostante abbia a cuore i suoi dipendenti - dichiara Tesla - nel mondo nessuno di loro è coperto da un contratto collettivo. E questo - secondo Ingvar Persson, giornalista di Aftonbladet - dipende dal fatto che Tesla sia un’azienda statunitense e che il suo proprietario Elon Musk abbia una forte attitudine anti-sindacale. Un’attitudine che forse può funzionare negli Stati Uniti, ma certamente non in Svezia. Se si permettesse a Tesla di continuare per la sua strada sarebbe un precedente molto pericoloso che potrebbe mettere a repentaglio l’intero modello svedese, non concedendo perciò alternative al sindacato se non lo sciopero, continua Persson nel suo articolo di opinione. Visto lo schieramento delle parti in campo, il conflitto è di difficile risoluzione e la mediazione lo è ancora di più. Secondo Per Ewaldsson - senior labour adviser del Medlingsinstitutet - si tratta di una disputa più sui principi che sulla sostanza: il sindacato chiede la firma di un contratto collettivo e l’azienda si rifiuta.
Con queste premesse la strada non può che essere già segnata. Dalla mezzanotte del 27 ottobre inizia lo sciopero: circa 130 meccanici affiliati al sindacato IF Metall si rifiutano di revisionare le auto in una decina di centri Tesla presenti in Svezia a Umeå, Uppsala, Stoccolma, Örebro, Norrköping, Göteborg, Malmö e altre cittadine minori. Il comunicato stampa del sindacato avvisa che sono stati posizionati i picchetti davanti ai luoghi di lavoro e che se non ci dovessero essere sviluppi il conflitto verrà esteso dal 3 novembre. Secondo IF Metall molte condizioni sono inferiori a quelle del contratto collettivo di settore: i salari dei dipendenti Tesla sarebbero inferiori alla media; la copertura assicurativa e il contributo pensionistico non sarebbero adeguati; tra l’altro non avrebbero accesso a nessuna riduzione dei turni di lavoro e, senza un contratto collettivo, gli aumenti salariali annuali non sono garantiti. Tesla da parte sua afferma che invece offrirebbe condizioni di lavoro migliori di quelle presenti nel contratto di settore. Ma se questo fosse vero non dovrebbe avere nessun problema a firmarlo. Infatti - come ricorda la confederazione sindacale LO - il contratto collettivo non impedisce alle aziende di offrire condizioni migliori di quelle negoziate bensì evita che vengano ridotti unilateralmente i salari o le condizioni di lavoro, non rispettando né i diritti dei dipendenti né le altre aziende concorrenti che invece operano sotto contratto collettivo.
Lo sciopero viene accolto sui giornali svedesi con titoli roboanti come “Tesla sta dalla parte sbagliata della storia” o “IF Metall sfida l’uomo più potente dell’industria automobilistica”. E l’escalation del conflitto è in effetti molto veloce. Tesla prova a contrastare l’azione industriale tentando di mappare l’affiliazione al sindacato, che secondo Darko Davidovic - legale di IF Metall - è una pratica non ammessa dalla legge. Ma non solo: come rivelato dal Dagens Arbete, e poi confermato da Tesla stessa il 6 novembre, l’azienda ha tentato di redistribuire i lavoratori non aderenti allo sciopero dislocandoli negli stabilimenti a corto di personale, per evitare che le attività venissero completamente bloccate. Così facendo però il segnale che lancia Tesla è quello di voler acuire il conflitto e non tentare di risolverlo. Pratica molto poco svedese. E infatti Veli-Pekka Säikkälä di IF Metall dichiara come Tesla abbia oltrepassato tutti i limiti. Il riferimento storico è preciso: i limiti di cui parla sono quelli fissati dall’Accordo di Saltsjöbad del 1938. Le azioni di Tesla ricorderebbero molto il clima di duro conflitto tra le parti precedente all’Accordo, quando la pratica di riorganizzazione delle mansioni dei lavoratori non aderenti allo sciopero da parte di un’azienda fu vietata. Una pratica che i datori di lavoro avevano dunque accettato di non utilizzare più. L’azione di Tesla - secondo Säikkälä - si prefigurerebbe come una violazione del compromesso e perciò un attacco diretto al modello svedese, non solo a IF Metall, ma a tutto il movimento sindacale. La risposta più ovvia alla mossa scomposta di Tesla è pertanto una escalation del conflitto che coinvolga anche gli altri sindacati in azioni di solidarietà e boicottaggi a catena per bloccare tutte le attività Tesla sul territorio svedese, nonché i suoi tentativi di aggirare lo sciopero e di mettere a repentaglio il modello svedese.
Tra novembre e dicembre le azioni di boicottaggio e di solidarietà (sympatiåtgärd) da parte di altri lavoratori IF Metall (lista completa qui) e di altri sindacati (lista completa qui) si moltiplicano e si estendono su tutto il territorio svedese e in tutta la Scandinavia. Gli affiliati IF Metall iniziano a rifiutarsi di operare su veicoli Tesla anche in centri autorizzati ma non esclusivi del marchio statunitense. La prima ondata di boicottaggi del 3 novembre riguarda 17 officine e circa 450 lavoratori. Ma la seconda ondata è ancora più impressionante e non riguarda solo meccanici e ingegneri. L’ultimo incontro tra le parti del 6 novembre sancisce la rottura definitiva tra IF Metall e Tesla. Dal giorno dopo i sindacati dei trasportatori (Transportarbetareförbundet) e dei portuali (Hamnarbetarförbundet) bloccano il trasporto delle merci a marchio Tesla, nonché il carico e lo scarico in tutti i porti svedesi. Gli elettricisti (Elektrikerförbundet) interrompono le riparazioni dei punti di ricarica delle auto elettriche e degli stabilimenti Tesla. Entrano i sciopero i verniciatori (Målareförbundet); gli addetti alle pulizie (Fastighets) si rifiutano di effettuare la manutenzione degli uffici e delle officine. La compagnia Taxi Stockholm, la più grande della regione, interrompe gli ordini di nuovi veicoli elettrici. I costruttori (Byggnads) bloccano tutti i cantieri delle future officine. Il sindacato dei dipendenti municipali (Kommunal), insieme ai trasportatori, comunica il blocco della gestione dei rifiuti in tutti i centri Tesla. Entrano nel conflitto persino i lavoratori del settore postale con i sindacati SEKO e ST che bloccano qualsiasi tipo di consegna e ritiro di posta e di pezzi di ricambio nelle officine e negli uffici Tesla. E soprattutto - svela il quotidiano economico Dagens Industri - smettono di recapitare le targhe dei nuovi veicoli a Tesla, cosa che blocca di fatto la consegna dei nuovi veicoli ai clienti.
A dicembre il conflitto si allarga agli altri paesi scandinavi: i primi a prendere parte alle azioni di solidarietà - il 5 dicembre - sono i trasportatori del più grande sindacato danese 3FTransport; il giorno dopo arriva l’annuncio dei vicini norvegesi della confederazione Fellesforbundet e il giorno dopo ancora sono i trasportatori finlandesi del sindacato AKT ad annunciare il loro supporto alla battaglia intrapresa da IF Metall. Dal 19 dicembre i portuali e gli autotrasportatori nordici fanno in modo che Tesla non possa operare sull’intero sistema portuale scandinavo. Il sospetto più che fondato è che l’azienda voglia aggirare il blocco dei porti svedesi, facendo sbarcare le auto in porti limitrofi per poi farle arrivare via terra in Svezia.
Secondo Christer Thörnqvist - ricercatore in scienze del lavoro dell’Università di Skövde - un coinvolgimento così ampio in un conflitto industriale è un fatto storico persino per la Svezia. La disputa in corso ricorda molto l’ultima grande battaglia dei sindacati svedesi avvenuta quasi 30 anni fa contro l’azienda di giocattoli statunitense Toys R Us, che si rifiutava anche in quel caso di firmare un contratto collettivo. Il braccio di ferro fu vinto dai sindacati dopo tre mesi di scioperi, azioni di solidarietà e boicottaggi. Ma Thörnqvist fa notare che in questo caso il coinvolgimento degli altri sindacati nordici in solidarietà ai cugini svedesi rende il conflitto decisamente più vasto. Un altro paragone è quello con il grande conflitto industriale del 1980, uno dei più grandi della storia svedese: ma in quel caso le moltissime sigle sindacali coinvolte erano implicate direttamente nel conflitto, non tramite azioni di solidarietà come questa volta.
La pressione congiunta di tutti i paesi nordici su Tesla passa anche attraverso la minaccia di grossi fondi d’investimento istituzionali di vendere i loro pacchetti di azioni dell’azienda. Già il 7 dicembre due fondi pensione danesi Pensiondanmark e PBU annunciano di essersi disfatti delle loro quote. PBU aveva in passato già disinvestito da Amazon, Wallmart e Ryanair per questioni legate al rispetto dei diritti dei lavoratori. Nei giorni seguenti 16 grandi investitori nordici firmano una lettera indirizzata a Tesla in cui chiedono di incontrare l’azienda e di firmare l’accordo collettivo con IF Metall. Tra i firmatari c’è anche il più grosso fondo pensione norvegese KLP e l’importante compagnia assicurativa svedese Folksam. Molti di questi attori sono legati ad organizzazioni sindacali.
Il tema degli scioperi di solidarietà (sympatiåtgärd) è impressionante per il peso che ha in questo conflitto ed è anche particolarmente affascinante da un punto di vista culturale. Questa pratica è permessa in Svezia, mentre in molti paesi è spesso considerata illegale o di difficile attuazione, come sottolinea German Bender in questo articolo su The Guardian. Questo dona ai sindacati nordici un potere negoziale enorme rispetto ai loro omologhi in altre nazioni. In Svezia anche chi è sotto contratto collettivo può scioperare in solidarietà nonostante, come detto in precedenza, il contratto stesso lo sottoponga al divieto di sciopero contro il datore di lavoro firmatario dell’accordo. Ma se sindacati non direttamente coinvolti in un conflitto vogliono supportare l’azione di altri lavoratori possono farlo senza violare il loro accordo. Come sottolineato precedentemente, le azioni di supporto delle sigle sindacali più disparate si sono rese necessarie perché la questione in ballo è ritenuta dagli stessi sindacati di vitale importanza e riguarda una possibile sfida all’intero modello svedese. Il già citato Bender - in un altro interessante pezzo su The Guardian - scrive come questo sia sì un conflitto relativamente piccolo e limitato ma che - dato l’enorme rilievo dell’azienda coinvolta - potrebbe avere conseguenze di tipo normativo. E’ una battaglia di principio. Il modello svedese non verrebbe distrutto dall’oggi al domani, ma verrebbe fortemente minato dall’interno. Se i sindacati permettessero a Tesla di non firmare un contratto collettivo, altre aziende sarebbero titolate a provare a fare lo stesso. Bender sottolinea che in Germania - altro paese con un’importante tradizione di contrattazione collettiva - negli ultimi 10-15 anni i lavoratori coperti da contratti di questo tipo siano diminuiti significativamente e questo potrebbe essere il rischio anche in Svezia se si desse il via libera al processo.
E proprio la Germania guarda con molta attenzione allo sciopero svedese. Tesla ha recentemente aperto una delle sue Gigafactory fuori Berlino con circa 11 000 dipendenti. Da mesi IG Metall - la federazione sindacale tedesca dei metalmeccanici del settore automobilistico e la più grande d’Europa con i suoi più di 2 milioni di affiliati - chiede a Tesla migliori condizioni e la firma di un contratto collettivo. Christiane Benner - la nuova Presidente - in un discorso infuocato al congresso del sindacato di fine ottobre ha ribadito la sua intenzione di sindacalizzare lo stabilimento Tesla e ottenere un contratto collettivo. Ma non solo la Germania. Negli Stati Uniti - paese con una lunga tradizione anti sindacale - lo sciopero di settembre del sindacato United Auto Workers ha garantito un aumento dei salari del 20-30% e migliori condizioni per 40 000 lavoratori di General Motors, Ford e Stellantis, come si legge sul The Guardian. In questo momento Tesla offre condizioni peggiori ai suoi dipendenti rispetto ai suoi concorrenti e perciò UAW potrebbe sfruttare l’onda svedese per tentare di organizzarli e fare pressioni sull’azienda. Lo stesso background culturale a stelle e strisce che ha formato la concezione anti-sindacale di Musk - e che gli fa dire frasi come queste: “I disagree with the idea of unions…I just don’t like anything which creates a lords and peasants sort of thing” oppure “Unions naturally try to create negativity in a company” - potrebbe alla fine portarlo a perdere una battaglia quasi più culturale che economica contro il modello svedese, che diventerebbe a quel punto un simbolo per i lavoratori di tutto il mondo.
L’attitudine di Musk appena discussa è la stessa che lo manda in escandescenza all’indomani della notizia del blocco delle consegne delle targhe a Tesla da parte delle poste svedesi (PostNord). Sul suo social media X (già Twitter) dichiara: “This is insane”, menzionando proprio l’articolo del Dagens Industri che per primo ha rivelato la notizia. E decide così il 27 novembre di citare in giudizio lo Stato svedese, che ritiene complice di un attacco indiscriminato e sproporzionato da parte dei sindacati ad un’azienda che lavora in Svezia. Il blocco di PostNord fa sì che le targhe dei nuovi veicoli Tesla, prodotte per conto dell’Agenzia Svedese dei Trasporti (Transportstyrelsens), non vengano consegnate all’azienda. L’agenzia governativa - che è legalmente responsabile delle targhe - ha un contratto vincolante con PostNord, lo stesso che vale per tutti gli enti statali. Tesla ritiene però che sia un dovere dello Stato svedese, tramite la sua agenzia, quello di garantire che le targhe siano non solo prodotte ma anche consegnate all’azienda. Nell’atto di citazione depositato al tribunale distrettuale di Norrköping - sede dell’Agenzia dei Trasporti - Tesla chiede che gli sia permesso di ritirare le targhe dal loro luogo di produzione a Danderyd, in modo da aggirare il blocco di PostNord.
Il tribunale il giorno stesso decide per una misura provvisoria che accoglie la richiesta di Tesla nel frattempo che la questione venga esaminata e che l’altra parte venga sentita. Questo perché - secondo la Corte - la casa automobilistica e i suoi clienti rischiano di subire un danno sproporzionato. Ma secondo l’Agenzia dei Trasporti le targhe una volta prodotte vengono inviate direttamente a PostNord, che le tiene in custodia nell’attesa di essere consegnate all’azienda. Quindi la richiesta di Tesla non può essere esaudita, se non passando per PostNord. Anna Berggrund - direttrice di dipartimento a Transportstyrelsens - afferma che non possono essere attori privati, quali l’azienda o gli stessi proprietari dei veicoli privati, a ritirare le targhe perché non esiste una procedura sicura per farlo ed è responsabilità dell’agenzia che le targhe non finiscano in mani sbagliate. L’agenzia decide quindi il 4 dicembre di impugnare la decisione facendo ricorso alla Corte d’appello di Göta. Molti esperti ritengono la questione sia particolarmente complessa da affrontare da un punto di vista giuridico perché coinvolge i doveri e le funzioni di un ente pubblico; la sua neutralità in conflitti industriali di questo tipo; il diritto costituzionale allo sciopero e i termini di un contratto vincolante per le parti. Il 13 dicembre la Corte d’Appello di Göta annulla la misura provvisoria del tribunale distrettuale di Norrköping, che dovrà però esaminare la controversia principale tra le parti.
Sempre il 27 novembre, Tesla cita in giudizio anche PostNord al tribunale distrettuale di Sölna per non adempiere al suo obbligo di servizio di consegna della posta. Il tribunale di Sölna in questo caso riconosce che ci sono le condizioni per fare causa a PostNord, ma al contrario della Corte di Norrköping, non dispone alcuna misura provvisoria immediata contro PostNord. L’oggetto del contendere sono 28 targhe in possesso delle poste, che Tesla vorrebbe poter ritirare autonomamente. Ciò non viene ritenuto dal tribunale un danno sufficientemente grande per l’azienda da giustificare una disposizione provvisoria immediata senza sentire proprio PostNord, a cui vengono dati tre giorni per una replica. Replica che arriva puntuale. PostNord dichiara di essere neutrale nel conflitto ma che il diritto di sciopero dei suoi dipendenti è talmente importante a livello costituzionale da poter essere considerato una causa di forza maggiore. Il che giustificherebbe l’interruzione delle consegne, senza nessuna violazione del suo ruolo di ente di pubblico interesse. Tra l’altro la richiesta di Tesla di ritirare le targhe in possesso di PostNord non può neanche essere accolta perché significherebbe obbligare i propri lavoratori in sciopero ad avere a che fare con personale e materiale Tesla. Il 7 dicembre il tribunale di Sölna da ragione a PostNord respingendo la richiesta di Tesla di una decisione provvisoria, e si prepara ad esaminare la questione principale tra le parti. L’azienda decide di ricorrere alla Corte d’appello di Svea che però il 22 dicembre conferma la decisione del tribunale distrettuale. Si configura così la sconfitta di Tesla anche su questo fronte, nel primo round della battaglia tra la casa automobilistica e lo Stato svedese.
La grande anomalia di questo confronto è proprio il tentativo di Tesla di coinvolgere lo Stato svedese. Questo comportamento mostra chiaramente lo scontro culturale delle parti in campo. L’azienda statunitense ignora le regole del peculiare mercato del lavoro svedese, dove la politica non è parte in causa. I politici per prassi non devono, né tantomeno vogliono essere coinvolti nella contrattazione tra datori di lavoro e dipendenti. Come afferma German Bender, è un argomento che gode di un tale consenso nell’opinione pubblica svedese che i politici non vogliono neanche sfiorarlo. E infatti ad inizio conflitto il Primo Ministro svedese Ulf Kristersson aveva commentato la vicenda dicendo che sia la legge che la lunga tradizione svedese del mercato del lavoro sono molto chiare al riguardo. Si aspettava perciò che la questione si risolvesse con un normale confronto tra le parti. Secondo quanto rivelato dal quotidiano Aftonbladet - dopo aver letto una mail riservata - Tesla però avrebbe tentato di incontrare il Ministro del Lavoro Johan Pehrson proprio nel pieno del conflitto. Il Ministro ha negato che sia avvenuto qualsiasi incontro con alcuna delle due parti coinvolte dicendo che il governo supporta il modello svedese del mercato del lavoro. Una piccola crepa nel sistema però viene svelata dal Dagens Industri. Pare che la Commissione sull’Industria del Parlamento svedese - su iniziativa dei Liberali e supportata dagli altri partiti di governo - volesse convocare PostNord in audizione, con la maggior discrezione possibile, per capire il ruolo del servizio postale nella disputa legale con Tesla. Sembra che la decisione sia maturata in seguito all’irritazione dei partiti più liberali verso ciò che è percepita essere una presa di posizione nel conflitto da parte di un’azienda statale come PostNord. L’articolo parla letteralmente di come si cammini sui gusci d’uovo in questa situazione, perché non si può rischiare che passi l’idea di un coinvolgimento politico.
Le anomalie in questo conflitto industriale, che ha le sue basi in un conflitto culturale, ci sono e i primi ad averle denunciate sono proprio i sindacati svedesi che ritengono che la battaglia in corso serva proprio a difendere il modello svedese da modelli di mercato del lavoro con meno garanzie, come quello statunitense. Secondo Marie Nilsson - presidente IF Metall, assurta a figura simbolo della battaglia sui media internazionali (qui un suo ritratto di Cecilia Sala sul podcast Stories) - lo sciopero in corso non riguarda solo i lavoratori Tesla, ma serve a proteggere proprio il modello svedese. Il tema ricorrente è che se fosse permesso a Tesla di operare senza contratto collettivo ciò aprirebbe la strada ad altre aziende sia nazionali ma soprattutto internazionali per fare lo stesso. Il modello svedese - ricorda Nilsson - sviluppato negli anni ’30 è stato il motore della crescita economica e della prosperità della nazione.
Tesla non è l’unica azienda hi-tech che cerca di sfidare il modello nordico. Le minacce si sono moltiplicate negli anni e sono arrivate anche da aziende nazionali, fiori all’occhiello del brand della Svezia nel mondo, come Klarna e Spotify. Klarna dopo aver negoziato per sei mesi e aver ricevuto un avviso di sciopero da parte dei sindacati - proprio durante il conflitto tra IF Metall e Tesla - il 3 novembre raggiunge un accordo per la firma di un contratto collettivo. Sia i sindacati (Unionen e Sveriges Ingenjörer) che il CEO dell’azienda Sebastian Siemiatkowski si dichiarano felici di essere riusciti a includere anche Klarna all’interno del modello svedese. Storia diversa è quella di Spotify, che ancora oggi non ha firmato un contratto collettivo e che in agosto ha interrotto i negoziati con i sindacati, sostenendo che il contratto collettivo non avrebbe alcun valore aggiunto per i suoi dipendenti. I sindacati si sono ripromessi di continuare a negoziare ma nel frattempo il 4 dicembre Spotify annuncia il licenziamento di 1500 dipendenti in tutto il mondo, il 17% del suo personale. Di cui circa 240 in Svezia. Secondo il quotidiano Aftonbladet con un contratto collettivo sarebbe stato tutto molto più difficile.
Secondo Marie Nilsson, tra le tante minacce subite dal modello svedese negli ultimi anni c’è stata anche la direttiva dell’Unione Europea sul salario minimo, che dispone per ogni Stato membro l’introduzione di un salario minimo per legge. Direttiva che avrebbe potuto danneggiare fortemente il modello di contrattazione collettiva e il ruolo dei sindacati. La Svezia è però riuscita a negoziare recentemente una deroga alla direttiva che permette agli stati con più del 80% dei lavoratori coperti da contratto collettivo di non doverla applicare perché l’obiettivo della stessa è essenzialmente già raggiunto.
Come finirà questa storia ? I sindacati sono pronti ad andare avanti molto molto a lungo - come dichiara Marie Nilsson. I fondi non mancano. IF Metall avrebbe in cassa più di 1 miliardo di euro, dato che questi fondi dedicati alla compensazione dei lavoratori in sciopero vengono raramente utilizzati. Al momento pare che i lavoratori ricevano il 130% del loro stipendio e il sindacato dichiara che possono andare avanti per decenni. Tesla ha almeno tre opzioni per risolvere il conflitto. La prima sarebbe quella di negoziare e firmare un contratto collettivo ovviamente. La seconda potrebbe essere quella di subappaltare il lavoro dei suoi dipendenti svedesi a un’altra azienda che abbia firmato un contratto collettivo. Amazon ha optato per questa soluzione e ciò permetterebbe a Tesla, pur non risolvendo il suo rapporto conflittuale con i sindacati nel mondo, di continuare ad operare in Svezia. La terza opzione è che Tesla abbandoni la Svezia. Susanna Gideonsson - a capo della più grossa confederazione sindacale svedese LO - ha dichiarato che la battaglia finirà con un contratto collettivo per i lavoratori in un modo o nell’altro. Se così non sarà, Tesla sarà costretta ad abbandonare la Svezia. Una vittoria simbolica enorme che potrebbe dare man forte alle lotte sindacali su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma Marie Nilsson, dal canto uso, è molto pragmatica nel riconoscere che non è nell’interesse del sindacato che Tesla lasci la Svezia. Sia perché fa buone auto sia perché sono strumenti importanti nella transizione verde. IF Metall si aspetta solo che Tesla operi alle stesse condizioni delle altre case automobilistiche in Svezia. E proprio con queste parole Marie Nilsson ci consegna uno dei tratti culturali più importanti della Svezia. Mai ricercare un conflitto ideologico impossibile da risolvere ma, nel più tipico stile svedese, lavorare per un confronto pragmatico sugli strumenti per poter raggiungere un obiettivo comune.